lunedì 17 gennaio 2011

Cari lettori fantasma

Babbo Natale me lo sono già giocato e la Befana ormai è passata. Per "papi" sono troppo vecchia, per Dio troppo peccatrice e il Diavolo ha detto che di me non si fida più.
A chi posso scrivere la mia consueta letterina, allora?
Direi ai lettori fantasma.
Cari lettori fantasma, (che siete un po' come gli gnomi: ci credo ma non li ho mai visti)
ci credereste che oggi un sedicente editore con marcato accento romanaccio voleva darmi a bere "signorina, i bollini della SIAE sono obsoleti, si usano solo per i dischi, ma poi lei lo sa a cosa servono?"
"Servono a numerare le copie che effettivamente escono dalla tipografia, a garanzia dell'autore sulle vendite effettive".
"Ma no, cosa dice? Sono solo bollini obsoleti che noi possiamo benissimo sostituire, senza alcun costo, numerando le copie a mano!"
"Gentile editore, io studio legge, non sono una sprovveduta. E ho anche già pubblicato, quindi queste cose le so."
"Ah. Eh ma sa, per andare a ritirare i bollini della SIAE dobbiamo andare fuori sede due giorni... questo alza molto i costi..." (Questo pretende che gli paghi il week end fuori porta?!?)
"Va bene, ho capito. Grazie, prenderò in esame la vostra proposta."

Che poi chi me l'ha fatto fare di avere il lampo di genio di scrivere i racconti, che si sa, agli editori questi ardori piacciono poco e non li leggono - manco avessi la peste!
Beata gavetta, io sto qui a parlare con delle zolle di terra e...? [intendesi per zolla di terra: essere vivente deambulante, diversamente intelligente, NdA]
Ma no, ma no, niente panico, un po' di zen! Io leggo Pettinato e me ne fotto, e sogno gli antichi sumeri.
Che tanto, direbbe qualcuno, finiamo tutti sotto un cipresso.

domenica 16 gennaio 2011

Il ritorno- Mamo Rosar Amru e Myria assira

Chi fu Mamo Rosar Amru?
Non ne so la storia, racconto la leggenda.
Quando i sacerdoti iniziati dell’Egitto ebbero udita la sfinge annunziare che la missione era finita, i maestri e i pontefici si separarono. Chi affrontò il deserto , chi il mare, chi si confuse nelle turbe delle grandi città. L’ultimo dei pontefici di Iside si avviò alla foce del Nilo e vi si assise pensieroso sulla riva.

Tutto era solitudine e silenzio.

- Tu, o Mamo, prendi la via dell’esilio e qui tutto si prepara all’oblio...
Mamo guardò colei che parlava. Era la "agubica" assira, Myria, che lo aveva seguito.
Mamo rispose:
- La mia patria è l’universo e non conosco che sia esilio.
- Ma hai l’animo stretto dalla pena dell’abbandono...
- No, io aspetto che la Dea disponga di me; ricomincio; dove poggio il piede è un tempio che sorge; noi siamo seminatori di verità.
- E vai lontano?
- Lontano.
- Dove nessuno al mondo ti ama e ti conosce?
- Non ho mai amato, o Myria, perchè non posso amare: le ombre della terra mi sono estranee e indifferenti, e non ho mai amato.
- Non nasconderlo, o pontefice, perché la Dea ha parlato: colui che tu vedi ama tutte le creature del mondo e non conosce l’amore: la sua missione comincia sulla terra.
- E che ti disse la Dea, che conoscerò l’amore?
- Ha detto che la conoscerai amante.
- E quando?
- Quando avrai provata la vendetta della sua gelosia divina.
Mamo sorrise; guardò il cielo stellato e l’onda fragorosa:
- Come sei stolta, o femmina assira, come sei povera, testa di femmina calda di lussuria. Tu della Dea ne fai una danzatrice e la vedi, come tu sei nell’anima felina, una spugna di piaceri voluttuosi assetata di vendetta...
- E così mi parlò.
- Sciocca, ella non era!
- Si, fu Iside a venire, fu lei che parlò..
- Cieca, come la vedesti?
- Come la più bella donna che mai l’Egittto vide.
- Ed era la Dea?
- Era la donna divina che ti ama.
- Vattene, Myria, il tuo discorso è insensato, tu sei folle - tu non sai chi io sia e chi la Dea.

Myria disparve. - Era notte. Passò una nave leggera con una fiaccola accesa - una barca si avvicinò alla sponda e un uomo gridò :
- Chi è colui che la Dea ha destinato al passaggio del mare?
Mamo avanzò, discese nella barca e avvicinò la nave. Appena vi fu sopra un vento dolcissimo gonfiò le vele e la nave filò come se un genio l’avesse condotta per mano.
Ma sulla costa della Campania una tempesta furiosa portò il naviglio a riva e Mamo toccò la terra delle sirene, Baia, Pestum, Puteoli, Partenope, Ercolano, Pompei, Stabia accoglievano nell’incanto di un mare dalle sponde fiorite il lusso dell’opulenza latina. Si fermò a Pompei, Iside ebbe un tempio e riti sacrificali.

II

Intorno all’epoca in cui Ponzio Pilato entrava nel credo cristiano, Iside dava responsi a Pompei. Mamo guardava il mare azzurro e le notti stellate, le candide notti lunari della molle doviziosa Pompei...
- A che pensi o Mamo?
- Alle anime che passano nei vincoli della schiavitù e amano con la voluttà che i re non conoscono.
- E tu la conosci?
- No, perché non posso amare.
- Ma lasciando il Nilo non ti dissi che la Dea vuol farti conoscere il divino del suo amore senza nome...
- O sciocca Myria, femmina calda di empia libidine, tu hai il delirio della mala fiamma! Tu vedi coi tuoi occhi osceni gli abbracci della Dea al più vecchio facitore di sibille.
- Non sono folle amico pontefice! Vedi il tuo tempio? Vedi i doni che vi hanno afflusso e i sacrifici consumati? Domani sarà spogliato di ogni bene e tu ne andrai in esilio...
- La mia patria è l’universo.
- Ma tu peni.
- Non peno.
- La tua voce è commossa.
- Non amo.
.....

Bastò la vicenda di un giorno di pazzia e Mamo partì per lidi più lontani. Myria, l’assira, sulla spiaggia scogliosa gli rivolgeva un cenno e Mamo la guardava impassibile.
- Questa non è la terra dove la Sfinge ha parlato e la tua missione ricomincia qui.
- Gli dii non vollero.
- È la Dea gelosa che ti castiga. Ne andrai lontano, ma qui tornerai. Perchè amerai e tornerai, dopo la vendetta della Dea comincerà la tua vendetta e conoscerai il suo amore.

III

Myria l’assira guardava l’orizzonte lontano; Pompei era seppellita con Ercolano e Stabia: sulla cenere non spuntava l’erba. Il piccolo tempio di Iside era stato distrutto. Una vela bianca comparve.
Mamo ritornava.

- O Mamo, tu ritorni. Vedi!, non fui folle, non ero sciocca...tu trionfi...
- O Myria, la Sua vendetta è compiuta, sono venuto a contemplarne le rovine...
- Conosci la voluttà dell’odio?
- No, o Myria assira, conosco l’amore.


CONCHIUSIONE.
La leggenda di Mamo Rosar Amru che ho raccontata, l’appresi sulle vie assolate di Pompei da una donna piacente che all’ombra di un para sole leggeva una guida per riconoscere l’antico giocondo riposo dei pingui cittadini dell’Urbe. Le domandai che cosa volesse dire la favola e lei mi guardò accigliata:

- Myria assira è l’eco della Dea, ella vive nel mondo; ho viaggiato insieme a lei da Londra a New York, in piroscafo di gran lusso . Ora porta sulla chioma bellissima un cappello da quaranta sterline, al braccio un gioiello che non ha prezzo, uno scarabeo che racchiude l’occhio della grande sacerdotessa di Menfi; al collo un monile di pietre preziose, ognuna di quelle è il dono di un Faraone. L’ho lasciata a Nizza l’ultimo carnevale, poi ha viaggiato la Svizzera e ora ritorna a Roma...
- A che fare?
La dama si accigliò. La voce divenne aspra.
- Come sono curiosi e indiscreti gli italiani!

Abbassai gli occhi, guardai sulla soglia dalla casa dei Vettii: due magnifiche flessuose lucertole evocavano gli amori degli antichi protetti di Priapo; una guardia degli scavi, più in là, pelava una pesca e la trangugiava irriverente ai ruderi di uno splendore tramontato. La dama si allontanava.
Ma io sentivo ancora negli orecchi - ...indiscreti gli italiani! - e in cuor mio le detti ragione: per noi il mondo delle fiabe, anche delle fiabe a tinte e mezze tinte di carattere occulto – è finito per sempre.

G. KREMMERZ

sabato 15 gennaio 2011

a un "vecchio amico"


Sorvolai lo spazio e il tempo per vedere gli occhi del mio amico. Non lo sentivo da troppo tempo e il mio cuore mi diceva che qualcosa, internamente, lo stava consumando. I suoi occhi nel mio dormiveglia erano intrisi di ombre, di orrori chiusi nel vaso di Pandora.
Il mio amico era un guerriero d’onore. Non avrebbe mai detto una parola sulle sue ombre. Non se ne sarebbe lamentato con nessuno.
Quando sai molte cose, molti vengono a prendere e nessuno a dare: questa è la solitudine del guerriero dello spirito, che deve essere forte abbastanza da portare il suo fardello senza che nessuno si accorga del suo sudore, e quando può toglie il fardello ad altri e li spinge, mentre essi si lamentano che è troppo pesante… e ancora, lui non dice una parola. Cerca di essere allegro, di dare un sorriso che come un miracolo fa emergere dal profondo del suo essere, come un fiore che nasce dall’asfalto.
Ma cosa succede se il fardello di quel guerriero è già di per sé terribile?
Forse verrà schiacciato, consumato dal suo peso e da quelli che via via si aggiungono.
Forse a volte manca il coraggio di guardare quello che accade, e l’amarezza per qualcosa che sembra irrimediabilmente perduto si fa strada, insostenibile e sotterranea.
Forse non si accorgerà di chi, senza bisbigli o parole inutili, da lontano guardava a lui, in un silenzioso “come stai?” a cui, se fosse stato messo in parole, avrebbe risposto soltanto “bene”.
Il vento si alzò nel cortile quieto, come a portare quel solitario saluto dove era diretto, e sparse il sonno sui miei occhi.

venerdì 14 gennaio 2011

omino del cervello: zen

Direttamente dall'omino del cervello che abita su Giove, le massime di saggezza zen per il nuovo anno: 4 modi di allertare le persone che la pressione sanguigna sta salendo fino alle orecchie causando fumo... in ordine di gravità e impellenza.

1) "sai che hanno cambiato programma di nuovo per la festa?" "Diego, sono MMOLTO STANCA. Voglio stare tranquilla e meditare sull'esistenza, fate quello che vi pare."
2) (collassando nei pressi di una lavatrice insieme a Diego): "Eccoci, alla fine, uniti nel disagio e nella disperazione".
3) "Non ti permetterò di turbare il mio stato zen".
4) "Me ne fotto, non mi seccate".

mercoledì 12 gennaio 2011

buona notte ^^

Non la conoscevo, ma stamattina l'ho sentita cantare da una ragazza (un'ottava sopra) che sembrava piombata giù da un sogno di Lynch. Forse un giorno ci proverò anch'io, per adesso vi lascio il testo:

Notte di note note di notte
di luna che imbroglia i cani
vagabondi invisibili nelle vie che sanno tutto 

e ci cammino 
a tempo col rumore della terra che gira 
e fornai che fanno il pane di domani
secchi d'acqua che svegliano i balconi
cotti di sole del mattino 

In questa notte di ragnatele
di fili notturni sul mio viso
l'alito largo del vento mi segue annusando i pantaloni
e quante dita stanno acchiappando note
che cadono giù dal paradiso
e le giornate si chiudono dietro le serrature dei portoni
- buona notte ai piccoli dolori
buona notte a tutti i suonatori
buona notte a queste nubi d'inchiostro
buona notte a questo figlio nostro -

Qui in questa curva di cielo
ed ogni odore è un ricordo
che torna a bruciapelo
e porta via
la sete e i giorni sbagliati
per una notte di pace
nei cuori affaticati 

Notte di note note di notte
tesa come pelle di tamburo
fari che bucan la pazienza dell'aria
cercando di capirmi gli occhi
in questo stesso istante tra la California e il Giappone
c'è chi inventerà il futuro
per tutti gli uomini che passano sui fogli del mondo come scarabocchi
In questa notte di stelle distratte
sorprese da un'alba che confonde
muri vecchi che respirano un giovane cielo rattoppato
e un risveglio salato di mare
nei cortili deserti che scavalcano le onde
come qualcosa di rauco
che ti chiedi cos'è mentre ti è già passato
- buona notte ad ogni nota d'argento
buona notte a un sollievo di vento
buona notte a questo silenzio d'oro
buona notta buona notte tesoro -
Qui, in questa via di nessuno,
mi sto frugando parole
per far sognar qualcuno...
quando verrà
dal cielo dove si trova
una speranza di luce
una canzone nuova
Qui in questa notte di note
a guardarmi la vita
dentro le mani vuote
Ma che cos'è mai
che mi fa credere ancora
mi riga gli occhi d'amore
e mi addormenterà dalla parte del cuore?


(per la cronaca: Notte di note, note di notte, Baglioni -sic!-)

giovedì 6 gennaio 2011

La fata di Rocca Pagana

Dalle Sarche la strada si slancia verso le Giudicarie Esteriori, inerpicandosi sul monte in stretti tornanti. Unica nel suo genere la cupa bellezza della gola del Limarò dalla quale spuntano enormi massi ispiratori di antiche leggende, inaspettata la grazia di prati e boschi costellati da antichissimi campanili in granito, là dove la valle si allarga. Le tribù delle Giudicarie furono le ultime, nel Trentino, a convertirsi al cristianesimo. Quando nelle valli si adorava il Cristo, lì vi erano ancora i grandi sacerdoti di Nettuno, il dio dell'acqua sorgiva, la cui tradizione si tramandava di padre in figlio. Ma una alla volta le grandi famiglie si estinsero.
Ancora oggi una leggenda locale ricorda la fede incrollabile dell'ultimo sacerdote di Nettuno e la sua disperazione al pensiero che, morto lui, nessuno si sarebbe più ricordato come onorare i vecchi Dei.
Ogni giorno l'ultimo sacerdote di Nettuno soleva recarsi nei boschi per compiere i suoi rituali e i suoi sacrifici e supplicare gli dei di non permettere a Cristo di cacciarli per sempre anche dalla valle delle Giudicarie. E intorno a lui il mormorio delle acque bisbigliava dell'approvazione dei grandi esseri celesti, e il frusciar delle foglie incoraggiava il suo cuore, e nelle lunghe ombre della sera scorgeva le vesti bianche delle naiadi e delle aquane.

Un mattino, sentendo avvicinarsi l'ombra della morte, egli decise che nessuno avrebbe profanato gli arredi d'oro e pietre preziose della sua famiglia, e volle nasconderli dove nessuno avrebbe potuto trovarli, insieme ai segreti del suo culto. Quando le tenebre avvolsero il mondo camminò a lungo, fino a una caverna in fondo al bosco, e lì nascose il suo tesoro; l'indomani mattina il vecchio morì serenamente.
Ma quando la notizia della sua dipartita si sparse, gli abitanti del paese partirono alla volta della sua casa, decisi a far proprie quelle ricchezze ormai incustodite. Ma essi non trovarono nemmeno uno spillo d'oro, né nella casa né in tutta la valle, e intuirono che l'avesse nascosto da qualche parte, nella montagna, che battezzarono subito Rocca Pagana.
Un po' alla volta tutti abbadonarono le ricerche e del tesoro di Rocca Pagana si parlò soltanto nelle lunghe sere d'inverno, quando si raccontavano le favole ai bambini.

Il tempo continuava lento a trascorrere. Un giorno, in tempi a noi abbastanza vicini, capitò in un paese cristiano delle Giudicarie Esteriori uno straniero che di professione faceva il medico. Era una persona molto intelligente che dedicava tutto il suo tempo allo studio e alla ricerca di nuovi rimedi, ma il suo animo era del tutto insensibile e non trovava mai una parola buona per i suoi pazienti o il coraggio di dir loro una bugia pietosa, così che tutti lo evitavano e spesso preferivano curarsi con le erbe che affidarsi a lui. Di questo però il medico non si curava: ciò che gli interessava era conoscere più a fondo i rimedi alle erbe per poter guadagnare molti soldi tra la gente civile. "Non mi vogliono?", diceva, "Meglio così: avrò più tempo per camminare nei boschi."

Un giorno il medico stava appunto camminando nel bosco, quando giunse nei pressi di un ruscello d'oro. Vi affondò le mani per raccoglierlo, ma tutto ciò che ebbe in cambio fu un "Ahi!", pieno di dolore e di indignazione. Ridendo il medico si diresse verso quella voce, scostò i rami dei cespugli e degli arbusti che gli si paravano davanti e... si trovò dinnanzi a una meravigliosa creatura piangente, seduta davanti a una grotta.
"Chi sei, e cosa fai qui?" le chiese, abbagliato suo malgrado da tanta bellezza.
"Chi sono? Sono una fata, ecco chi sono! Una fata incaricata di custodire il tesoro di Rocca Pagana. Ma tanto tu non mi crederai: tu non credi a certe cose." rispose lei fissandolo con gli occhi del colore delle acque.
"Perché lo dici? Cosa sai tu di me?"
"So abbastanza da giudicarti un grande egoista, e noi Esseri Celesti non dovremmo mai avere a che fare con gli egoisti perché essi hanno il potere di farci morire. E' terribile, credi, rimanere sola in questo bosco per tanti secoli e poi incontrare proprio l'ultima persona con cui dovrei parlare!"
"Ti assicuro che io non sono proprio quel mostro che tu potresti pensare: mettimi alla prova!"
"Potrei confidarti che in questa grotta c'è un tesoro fatto d'oro purissimo, gemme, argento e tanto amore. Se saprai conquistartelo, te lo regalerò."
"E cosa dovrei fare, mia regina, per meritarmelo?"
"Dovrai spogliarti del tuo egoismo".
Per quanto l'impresa sembrasse ardua, il medico accettò la prova della fata, chiedendole il suo aiuto.

Da quel momento una strana amicizia, che presto mutò in amore, nacque tra la fata e l'uomo. Ogni giorno egli si recava sul monte, in mezzo ai boschi, fino alla caverna chiamata Rocca Pagana, per assaporare con lei l'incanto di albe e tramonti, inebriarsi del profumo dei fiori che s'inerpicavano fra contorte radici e curare uccelli, lepri e caprioli. Per niente, perché il corpo di quelle bestie non aveva alcun segreto medico da svelargli. Ma il medico si trovò a pensare che, se per ipotesi assurda quella cosa di cui aveva sempre negato l'esistenza e che i creduloni chiamavano anima fosse esistita, ogni essere di quel bosco ne doveva avere una molto bella. A volte amava scherzare con la fata, stuzzicandola su questo argomento, ma lei rispondeva soltanto: "Cerca."
Ed il medico cercò tanto bene da scoprire che può esservi una grande gioia nell'immedesimarsi con la natura e gli esseri viventi, e che se anche il tesoro fosse consistito solo di questa certezza dell'anima di ogni cosa, sarebbe stato un gran tesoro.
Nel frattempo i contadini della vallata avevano notato il suo grande cambiamento, la sua generosità e specialmente le sue passeggiate nel bosco. Dove andava, ogni giorno, il medico? E perché era diventato tanto allegro? Quando poi, da avido che era, diventò generoso coi pazienti, essi compresero che doveva essere entrato in possesso del tesoro di Rocca Pagana, e si decisero a seguirlo: non fosse mai che un forestiero li derubasse di ciò che spettava agli abitanti della valle!

Tre uomini, il giorno seguente, lo seguirono senza che egli se ne accorgesse ma ad un tratto, come d'incanto, il medico sparì. I tre, delusi e irritati, batterono tutta la zona sperando d'incontrarlo, ma invece del medico trovarono soltanto un immenso e meraviglioso ruscello d'oro. E sulla soglia della grotta dalla quale il fiume sgorgava, trovarono il medico e la fata, addormentati l'uno di fianco all'altra. A quella vista i tre uomini si fissarono sbigottiti, e ricordarono il vecchio sacerdote di Nettuno, gli dei e i semidei suoi amici e le voci su una fata di cui si parlava da tanti e tanti anni in paese.
I tre compresero di trovarsi a Rocca Pagana, ma capirono che mai e poi mai una creatura così potente avrebbe permesso loro di impadronirsi del tesoro destinato al suo innamorato. A malincuore, decisero di abbandonare ogni speranza e di tornare sui propri passi, ma prima vollero lasciare un segno per avvertire la fata che era stata scoperta. Presero un grosso masso e lo posero sui suoi capelli, poi si allontanarono.

Al suo risveglio la fata iniziò a pettinarsi le lunghe chiome, e si accorse del sasso che le tratteneva. Capì così di essere stata scoperta da qualcuno. Ma chi aveva indicato il suo nascondiglio? Guardò l'uomo addormentato al suo fianco: lui, senz'altro. E l'aveva fatto per impadronirsi impunemente del tesoro. Con somma astuzia era quasi riuscito a convincerla del suo cambiamento. Commedie.
Ma la colpevole era lei, incaricata di custodire gli arredi del tempio di Nettuno e la sua sapienza: non avrebbe mai dovuto permettergli di avvicinarla e di svelare a tutti il suo nascondiglio. Ma ora avrebbe compiuto il suo dovere senza esitare.
E la fata, levato in alto un affilatissimo pugnale, lo conficcò fino al manico nel cuore dell'innamorato. Poi sparì nel nulla, insieme al tesoro di Rocca Pagana che, come volle l'ultimo sacerdote di Nettuno, non fu mai profanato dai cristiani.

(tratto da: "Le più belle leggende del Trentino", Giovanna Borzaga, ed. Manfrini, 1984)

mercoledì 5 gennaio 2011

la nana mangiafuoco

Solo io e i miei poveri, innocenti e vagamente psicotici amici potevamo essere invitati a una festa di Capodanno in cui a mezzanotte una nana mangiafuoco si è ficcata dei coltelli in gola per fare spettacolo. Avrei preferito i fuochi d'artificio, infatti di fronte alla scena grottesca prospettatasi ai miei occhi ho prontamente fregato cinque bottiglie di spumante e sono corsa fuori, aprendo la strada agli impavidi eroi, per lavarci di vino guardando, per l'appunto, i fuochi d'artificio.
La serata si è svolta in un clima felliniano, i ricordi sono vagamente confusi in stile Satyricon.
Non farò alcun resoconto dettagliato, se è questo che credete, perché pur essendo aneddoti rimangono cazzi miei.

Buon 2011 a tutti!!!