domenica 24 luglio 2011

suicidio burocratico

Non è che lui fosse "un" superavvocato, superprofessore e superuomo.
Era un proverbiale stronzo la cui fama lo precedeva.
Ne avevo sentite su di lui talmente tante che quasi eguagliava i pettegolezzi che precedono me medesima.
Forse proprio per questo provavo simpatia per un quell'uomo dell'acquario un filo narcisista, tendenzialmente filantropo e perennemente superimpegnato.
Avevo capito che con lui le cose non andavano nei canonici modi già quando mi diede appuntamento per un colloquio e mi trovai a un banchetto universitario con un bicchiere di vino in mano a parlare con professoresse ubriache affette da ridarella.
O quando mi fece un colloquio mentre scendeva le scale, anticipando "bene: prima lei, poi lui, poi scendo le scale con lei".

Ma stavolta s'è superato.
Dovevo laurearmi a febbraio e già finire 6 esami di legge entro settembre mi pareva un'impresa epica (sono a quota 3), metterci anche la tesi pareva un suicidio. Senza troppe speranze gli butto lì una lamentela sul fatto che, anche laureandomi a ottobre, non avrei il tempo di cercare uno studio per iniziare la pratica legale entro novembre.
La risposta, immediata, fu: "Gentile Dottoressa [lapsus o provocazione?, NdA], vediamoci e tentiamo l'impossibile. Uno studio lo troviamo senz'altro, se vuole anche il mio. Ci vediamo mercoledì o giovedì per un piano di battaglia. Non può certo perdere un anno!"
Il relatore in questione deve un anno di vita a tutta la famiglia (gatto compreso) causa urlo di gioia.

Burocraticamente parlando, ciò che sto tentando di fare è un suicidio: dovrò reperire 13 (E DICO, 13!!!) certificati di varia natura da depositare presso il Consiglio dell'Ordine degli avvocati, e dopo la laurea avrò tempo una settimana per farlo.
Ma questo vuole anche dire che a novembre avrò una casetta e lavorerò.

Seguiranno aggiornamenti.
Vostra, Ally McBeal

mercoledì 20 luglio 2011

cos'è un "legame"- o laccio.

Sono giunta alla conclusione che abbiamo concezioni molto falsate dei rapporti umani. 
Per la maggior parte delle persone, un rapporto è tale se si crea una cosa che chiamano “legame”.
Legame.
È un termine molto brutto: il suo primo significato è “legatura, laccio”.
Ovvero, dipendenza.
Non importa come questa dipendenza si maschera con parole o filosofie di vita "indipendenti" o "anticonformiste": bene o male, è una malattia da cui tutti sono affetti. Se il fine del “laccio/legame” non è il matrimonio/convivenza (laccio amoroso) che richiede ovviamente anche che altre pretese preliminari siano soddisfatte in un certo ordine, sarà “ho bisogno che tu venga qui immediatamente, qualunque cosa tu stia facendo” (laccio dell’amico/a).
Frasi ricorrenti nel lessico del laccio sono, ad esempio, “non ti fai sentire abbastanza”, calcolandosi quell’apparentemente innocuo “abbastanza” in virtù del comunemente accettato criterio per cui “le cose devono andare in un certo modo”, il che non comprende solo “tutti i giorni”, ma progressivamente mira a voler comprendere un arco di tempo indefinito ogni giorno in cui bisogna soddisfare la necessità altrui di sentirsi al sicuro, coccolati, ascoltati e accettati. Perché da soli non siamo in grado di darci queste cose. Più soddisfi l’aspettativa, più la sua fame cresce. E se un giorno non le dai da mangiare, potresti anche sentir parlare di “mi devi gli arretrati”.
Devo? Ho firmato qualcosa? No, ma non ha importanza: "è ovvio volere certe cose". Un tacito accordo sociale, pare. La questione si fa quasi interessante, un sociologo si scatenerebbe.

Se questo criterio di vita relazionale tu non lo accetti, niente paura: ce n’è per tutti i gusti di risposte con cui si fa un passo indietro!
Ma, in realtà, togliere questo concetto dalla testa dell’essere umano è pressoché impossibile: ci saranno sempre aspettative e pretese. Se non è oggi, diamole tempo: riproveremo domani e casomai faremo di nuovo il passo indietro. L’aspettativa non cambia, può solo rimanere malcelata per qualche tempo.

Non bastiamo a noi stessi e, anzi, siamo tremendamente annoiati da noi stessi.
Per questo si crea la dipendenza.
Per questo non è mai “abbastanza”.

martedì 19 luglio 2011

il custode del tempo- parte 2


L’ultimo giorno.

I millenni scivolarono. Il custode cambiò pelle innumerevoli volte. Trasferiva il suo spirito da un corpo all’altro, rinnovando la sua giovinezza. E poco a poco, il corpo ospite prendeva le sembianze inconfondibili del suo sguardo senza tempo, del suo passo senza fretta.

Il cielo d'aprile appariva, all'occhio attento, un singulto di sole nel vento ancora freddo. Le braccia delle donne erano impazientemente nude. Camminavano svelti, i brav’uomini di ritorno dal lavoro; le coppie sottobraccio affollavano i portici. Ogni tanto, una moneta da due soldi tintinnava nella scodella accuratamente dipinta di un pittore di strada.
Dipingeva con la grazia di chi ha tempo infinito - fissando a tratti un punto imprecisato - sempre lo stesso uomo: una figura stretta in un mantello nero, con un cappello calato sugli occhi. Solamente un quadro mostrava lo sguardo di quell’uomo sul fondo di una notte stellata: vivo, bruciante, infinitamente profondo. Su quella tela era posto un cartello chiaro con una scritta blu: "NON IN VENDITA".
Una ragazza lo avvicinò, dai lunghi capelli scuri, serena, ma in fondo piena di una profonda, viscerale vita celata nell’abisso degli occhi color giada. Fingeva di guardare i quadri con attenzione, ma tra una pennellata e l'altra scrutava lui, il pittore di strada.
“Conosci quest'uomo?” gli chiese all'improvviso.
L’artista strinse il pennello, staccandolo bruscamente dalla tela. Alzò cautamente gli occhi, come chi si svegli da un sogno per catapultarsi in un altro. Con sguardo teso scrutò la ragazza.
No, non sembrava la persona che da tempo aspettava. Troppo ben vestita, troppo giovane.
Insinuandosi nel profondo di se stesso, il pittore fissò senza aspettativa gli occhi di lei.
In un lampo, la sua mente gli bisbigliò ciò che intendeva sapere: è lei.
“L'ho conosciuto” rispose allora “molto tempo fa.”
“Molto tempo fa…” ripeté lei. “Allora tu forse sai... dove posso trovarlo...”
Il pittore tacque. Le sue mani intrisero nuovamente il pennello nel colore, dando forma sulla tela ad un cielo plumbeo. La ragazza mise nervosamente le mani nella borsetta, frugò per qualche istante e ne estrasse infine il portamonete.
“Posso comprarti due quadri, se vuoi.” L'uomo non rispose, né alzò gli occhi dalla tela. “Devo sapere dove si trova.”, insisté la donna.
In un lampo, l'uomo fulminò la ragazza, senza muovere un muscolo: 
“Tu non sai di cosa stai parlando. Ora vattene. Non voglio i tuoi soldi... né il tuo corpo, se è questo che hai intenzione di offrirmi.”
Nulla pareva essere accaduto per i passanti eppure la donna arrossì violentemente, guardando l’asfalto sotto i suoi piedi. La furia la pervase, ma la dominò rilasciando dolcezza nelle vene.
Rimase ancora qualche secondo a fissare i quadri, cercando inutilmente un pretesto per andarsene o per restare. Lo sguardo di quel dipinto era ciò che cercava da un tempo infinito. Forse, si era lasciata trasportare dall’immaginazione… ma amava profondamente quel pittore di strada. E in un lampo, la mente le disse ciò che voleva sapere: è lui.
E in un lampo il caleidoscopio si animò. L’eterno gioco ebbe inizio, sul filo del rasoio delle possibilità.
La donna scivolò col vento lungo la via, senza riuscire a confondersi tra la folla. Si allontanò di un centinaio di passi, sentendo gli occhi del pittore perforarle la schiena, poi entrò in una bottiglieria in fondo alla strada.
Il pennello, inesorabile, accuratamente evocava uno sfondo identico agli altri: sfumature larghe, orizzontali ed annacquate, distese ed inquiete come uno squarcio di tempesta in una notte senza fine. Quando la luce del giorno fece spazio all'ocra ovattata del tramonto, il pittore raccolse lentamente, pazientemente, una ad una le sue tele, le avvolse in una consunta cartella di cartone legata da un grosso spago, chiuse la valigetta e si avviò alla solita taverna in fondo alla strada. Lasciva e rassegnata, la porta troppo oliata si fece aprire senza sforzo. L’artista scivolò dentro, sul tavolo in fondo alla sala con l'illuminazione più tenue, di lampade ad olio. Un uomo dal grembiule bianco a tratti intriso di vino gli servì una bottiglia di rosso senza etichetta ed un bicchiere largo e basso, di vetro grosso.
Solo allora, alzando gli occhi per fare un cenno abituale di ringraziamento, il pittore si accorse che il tavolo di fianco era occupato da una giovane donna che lo fissava. Sembrava la stessa ragazza che gli aveva offerto dei soldi quel pomeriggio, ma non poteva esserne certo: sembrava più adulta, più donna, più consapevole. Maledettamente consapevole.
Il suo sguardo aveva qualcosa di felino, come un leopardo acquattato che prepari un agguato. Forse era la luce soffusa delle lampade ad olio a giocar strani scherzi. Forse non era lei.
La donna si alzò dalla panca di legno su cui sedeva e si spostò di fronte a lui, prendendo posto su una sedia robusta.
“Non le chiederò se posso sedermi” esordì accavallando le gambe e mescendosi del vino. “D'altronde lei è solo, dico bene?”
“Faccia come crede” rispose lui “Aspetto qualcuno.”
La donna si sporse sul tavolo, cercando il suo sguardo in un sorriso sarcastico:
“Chi aspetta? La sua donna, forse?”
Un sorriso a denti stretti, malizioso, inondò di cinismo il viso del pittore.
“Lei sa chi sto aspettando. Forse, non immagina da quanto.”
Gocce di rubino inondavano le labbra, nel silenzio quasi teso di un'atmosfera rarefatta e surreale. Gli sguardi si penetrarono a vicenda come in un istantaneo amplesso sottile. Mani di perla accarezzavano il bordo del bicchiere e le labbra si schiusero in parole di velluto:
“Ti ho osservato... sì, i tuoi occhi assorti nel colore... le tue giornate scorrono conformi alla tua promessa, da tempo immemorabile... per quanto ancora la tua fede rimarrà intatta? Per quanto ancora aspetterai la nuova razza, perchè ti dia una seconda morte?”
No, il pittore non si stupì delle parole della donna. Non si stupì che conoscesse la sua storia né che i suoi occhi, in superficie candidi, rivelassero un abisso che all’inizio della sua esistenza l’aveva scrutato superando il velo del tempo. Gli occhi che di vita in vita aveva rammentato, senza mai scorgerli per la strada. Nulla più poteva stupirlo né toccare le corde superficiali dell'emozione che tormenta l'animo umano. Un’apparente freddezza lo pervadeva, lo attorniava, come una scorza di ghiaccio che per incanto riesca a celare una fiamma inesorabile, celata nel profondo.
“Un giorno, resuscitando dal mio sepolcro nella pantomima della morte, la vidi: aveva varcato la soglia dei mondi. Mi scrutava. Credetti a un sogno, ma cambiando pelle capii: la lotta eterna contro la morte aveva avuto inizio. Raccolsi l’umano sapere in attesa dell’ultimo giorno. Ma quale domanda lei volesse pormi, non lo seppi mai con certezza. Non ho mai avuto l’onore di rivedere il suo sguardo, ma l’attendo da sempre. Infinite vite ho passato su questa terra, chiamandola per nome. Ma lei non rispose mai.
No, non è fede la mia attesa. È necessità. Questo corpo vive da molto, vagando per celare la sua eterna giovinezza. Agisco nell’ombra e la sera attendo. Non mi è dato sapere in che forma lei verrà a liberarmi, ma riconoscerà l’Occhio del cielo nei miei dipinti. E mi farà quella domanda che da sempre attendo. Mi chiederà, come sempre, se persevererò nella speranza o se abbandonerò la terra.”
D’improvviso, lo sguardo della donna si svelò. Quella superficie candida e morbida come il velluto si denudò in uno strapiombo di fiamma infinita, senza appigli, senza fine.
“Eccomi.”, disse soltanto lei. “E dunque, qual è la tua risposta?”
“Quella di sempre.”
La donna rise e versò altro vino.
“Pur sempre umano rimani: colmo di testardaggine che ti ostini a chiamare speranza. Per quanto ancora, custode, ripeterai tu stesso gli stessi gesti, come un criceto in gabbia?”
La visione davanti allo sguardo dell’artista di strada cadde in mille pezzi, i muri si sgretolarono come vecchi cocci scagliati nel nulla.
Per quanto ancora?
“Non è possibile. L’uomo deve essere salvato da una vita da lupo selvaggio, senza alcun sapere.”
La donna rise.
“E chi credi che possa porre fine all’eterno ritorno, custode? Chi credi possa cambiare un tassello del mosaico?”
L’uomo tacque. Bevve un sorso di vino. In silenzio finirono l’intera bottiglia. Mani nelle mani, intrecciati come colli reclini di cigni. Un istante senza tempo prima che cali il sipario. Un sorso ancora. Un respiro ancora. Ancora amore mentre si spezza il filo del mondo. In bilico sulla stretta lama del tempo come vecchi amanti: pur sempre umani.
In un plumbeo silenzio, lui si alzò. La donna attese qualche secondo ancora, poi oltrepassò la soglia della taverna per sprofondare nell’ombra notturna. I due si allontanarono nella notte senza strade e al pittore bastò guardare un solo istante la città di carta che franava per capire che non doveva lasciare traccia del suo passaggio. Bruciò le sue tele, i pennelli, i colori, bruciò ogni traccia di sé.
L’uomo non le chiese se aveva paura della morte.
Nessuno si accorse della loro scomparsa, ancora una volta nessuno pianse la loro partenza.
L’indomani le braccia nude delle donne, gli sguardi bassi dei brav’uomini che tornavano dal lavoro, i portici invasi dalle coppie sottobraccio, non si avvidero che l’artista di strada che vegliava su di loro da tempo immemorabile aveva spezzato le sue catene.
Silenzioso come un’ombra, senza lasciare traccia, dissolse il suo corpo e fu libero.
Il cerchio dell’eterno ritorno fu spezzato.
Ameranno e soffriranno, i figli di nessuno: lupi, belve, santi o eroi.
Pur sempre umani.
Stavolta liberi.
Ed essi sapranno che il futuro è nelle loro mani.

sabato 2 luglio 2011

Il custode del tempo

Che accadrebbe se un giorno o una notte,
 un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini
e ti dicesse:
“Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta,
dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte”?

Nietzsche, La gaia scienza

Nessuno si ricorderà di noi quando il fiume del tempo avrà spazzato via ogni traccia di ciò che fummo. Non vi saranno leggende, crolleranno i palazzi, i dati dei nostri computer scompariranno con loro. I nostri fogli subiranno la furia del tempo, delle tempeste. Nessuno rammenterà questo tempo perduto nell’etere quando non vi saranno più fili. Così, ancora una volta, dimenticheremo.
In una stanza fuori dal tempo uno solo attenderà. Altri passeranno, arriveranno, chiederanno, tenteranno. Moriranno come ombre.
Solitudine. Silenzio. Buio. Forse pazzia. Una strana forma di silenzio coglierà la sua mente. Pregno e saturo da non poterne uscire. Fuggirà la folla e quando Babilonia la Grande cadrà sarà lontano. Isolato. Con tutto ciò che il tempo, la sua mente e il suo cuore gli permisero di comprendere. Con tutto ciò che il tempo avrà fatto di lui e il suo ingegno gli avrà permesso di realizzare.
Non conoscerà i nomi dei sopravvissuti. Baderà soltanto a restare in vita e custodire il suo tesoro: la sapienza dell’umanità. In una estenuante lotta contro la morte.
Un giorno, qualcuno giungerà alla stanza fuori dal tempo: vestito semplicemente, arretrato. Occhi spalancati e innocenti, più simili a quelli d’un animale che a quelli di un uomo. Coperto soltanto di una pelle animale, sporco e dalla barba appena accennata per via della giovane età. Specchio della nuova umanità di cui è parte. Un’umanità giovane eppure antica quanto la Terra stessa.
Il mondo sarà cambiato, nel frattempo.
Specie animali si saranno estinte e i ghiacciai avranno cambiato forma, i continenti avranno disegnato nuove linee di confine. In questo nuovo e antico scenario nient’altro che un pastore varcherà la soglia in cui il custode preservò il fuoco di Prometeo.
E la storia si ripeterà.
Ancora una volta, il pastorello sgranerà gli occhi nel sentire in una lingua incomprensibile e non sua: “Ti aspettavo.”
Il vecchio custode, non capito, parlerà allora alla mente del giovane che, terrorizzato ma rapito dalla mano del destino, non potrà fuggire e ascolterà.
Non potrà fuggire, rapito da un ineluttabile destino.
Vedrà davanti ai suoi occhi un uomo di un’età cui nessuno della tribù sarebbe mai giunto, e lo crederà immortale. Vedrà nella sua postura e nei suoi vestiti una razza superiore. Il custode mostrerà ciò che anni di silenzio gli avranno permesso di serbare.
Il giovane trasalirà come si trovasse dinanzi a un Dio nel vedere ciò che il vecchio custodiva: il fuoco. Il metallo. L’agricoltura. La magia.
Non tornerà dai suoi che dopo molto tempo, dopo aver imparato tutto ciò che il tempo e la sua ragione gli avrebbero permesso di comprendere. Si parlerà di lui come di una leggenda vivente, un prescelto dagli Dei. Sarà chiamato Anzty, Osiride, Prometeo, Lucifero, Azazel, e gli uomini gli daranno ascolto perché mostrerà loro i prodigi della scienza umana. Essi coltiveranno i campi e andranno a caccia con arco e frecce. Si scalderanno nelle notti d’inverno davanti al fuoco. Il giovane prenderà qualcuno con sé e lo istruirà su ciò che non è indispensabile alla sopravvivenza, ma che dovrà essere tramandato. Affiderà il compito che fu suo e metterà le radici di ciò che in futuro si chiamerà religione.
Faranno tutto ciò senza sapere che così è sempre stato. E sarà sempre.
Nessuno saprà che un mondo, molto tempo prima che venisse l’oblio dal quale essi nacquero, era esistito. Non sapranno che un mondo esisterà di nuovo e che la loro giustizia e la loro ingiustizia lo forgeranno.
Non sapranno della catastrofe, della ribellione delle forze sotterranee che passo dopo passo distrussero la terra costringendo gli uomini ad ammassarsi gli uni sugli altri, lentamente, mentre la pazzia dilagava ed essi si uccidevano a vicenda o sopravvivevano nel terrore animale, ridotti a vagabondare in cerca di cibo, dimenticando gli alti palazzi, il lusso, la cultura e l’arte per la necessità di sopravvivere.
Essi non sapranno.
Scopriranno di nuovo il linguaggio. Scopriranno nuovamente l’arte e la pittura. Le anime già vissute si incarneranno nuovamente e istintivamente ricorderanno quale fu il loro posto. Tutto accadrà di nuovo. Ci saranno nuovi geni e rifioriranno arti, scienze e religioni. Gli Dei saranno risvegliati e le leggende resusciteranno.
Ed essi non coglieranno la sensazione d’aver già visto, già vissuto.
L’ignoreranno.
Cercheranno il piacere, il lusso, il divertimento, l’amore, il sesso, la sazietà. Correranno, lavoreranno, si faranno la guerra, evolveranno. Forse faranno scelte diverse e il nuovo mondo sarà differente dal primo. Forse stavolta sarà migliore.
È questo che spera l’uomo nella stanza fuori dal tempo: di epoca in epoca, di apocalisse in apocalisse, istintivamente il guardiano incarnandosi riprende il suo posto nell’antico sarcofago, e ancora una volta inizia la lotta contro la morte, per conservare. Per tramandare ciò che orecchi umani dimenticheranno. La peggiore maledizione degli uomini è che essi dimenticano.
Il custode che attraverso i roghi dell’Inquisizione, attraverso le persecuzioni dei martiri, attraverso la derisione degli scienziati e le grida dei Voltaire, tace e conserva l’unica chiave per uscire dal labirinto e per civilizzare la nuova umanità, in attesa che essa si liberi dal giogo della sua stessa fascinazione e faccia del mondo quel Paradiso che cerca nei sogni dell’aldilà, e che millennio dopo millennio diventa sempre più impossibile far vivere, mentre le ingiustizie mettono radici e formano le membra del Golem implacabile. Il Golem che la distruggerà, dando inizio a un nuovo ciclo. Così nasce l’ineluttabile morte dell’umanità: la giustizia e l’ingiustizia decretano la fine o l’estasi eterna.
Nessuno, di apocalisse in apocalisse, ha mai conosciuto il nome del custode. Non ci sono leggende su di lui, sulla sua personalità. Qualcuno a volte bisbiglia di un Errante dai poteri meravigliosi. Qualcuno a volte parla di un grande segreto. Egli non è che un uomo che ricorda, l’ultimo di una lunga stirpe d’eroi nascosti che attraverso le epoche tramandarono la Scienza del bene e del male per lasciarla nelle mani dell’uomo nuovo, nel momento del bisogno.
Perché il mondo sarebbe nelle mani dei lupi se anche in una sola Era mancasse la speranza in un risveglio della coscienza umana.
Il Cherub fiammeggiante ancora attende, alle soglie del tempo, ai cancelli del sogno, che quel custode s’arrenda o perseveri nella sua follia. Che si lasci morire nella sua pace invece di attendere pazientemente - sfidando la Falce - il pastore a cui affidare i doni per la nuova umanità, pur sapendo cosa ne aveva fatto la precedente. E cosa continuerà a farne.
Il Cherub attende che il custode dichiari l’umanità senza speranza e l’abbandoni, o pronta a ricevere il suo Eden e, con questa speranza, l’aiuti. Attende di sapere se il suo cuore si arrenderà o farà iniziare un nuovo ciclo, con una speranza che mai muore.
Ed essi non sapranno che il futuro è nelle loro mani.