lunedì 26 settembre 2011

(prime, forse uniche) righe d'Amore

Forse la verità è che non siamo più,
io e te, i due solitari d'un tempo.
Le mani si sono fuse
al calore delle fiamme
di questa via deserta,
e se le labbra possono mentire
e gli occhi abbassarsi,
forse non può mentire
quella voce che sento
nella stanza calda
quando il piede varca la soglia
e la mente mormora
sono a casa.

Tu sarai sempre
la mia segreta dimora,
il mio incontro col Nume,
il mistero del giorno
in cui da una
divenni Una.

giovedì 22 settembre 2011

Il fiume

Pezzi di vetro da masticare
tagliano le labbra.
Luci in lontananza
e un vecchio a fumare in veranda
nel solitario esilio di una vita.
Ridevi.
Cammino e
oltre l'argine del fiume
un ragazzo mi sorride.
Cammino.
Oltre gli occhi del cielo,
nell'abbraccio del fiume
a bagnarmi le labbra.

martedì 13 settembre 2011

Nomadi

Ho vissuto come se un domani non ci fosse.
E domani è venuto, inesorabile come sa esserlo solo il tempo, che non contratta con nessuno.
Con le vertigini osservo la Ruota girare, cercando di non pensare. Di stare quieta alla finestra guardando scivolare tra le dita il mio presente. E' tardi per voltarmi. Che lo voglia o no, ormai dovrò saltare in quel maledetto crepaccio e cercare di renderlo un gesto degno di essere vissuto.

Ha poi importanza, se io stessa non mi riconosco più? Hanno poi importanza le reazioni che avrei avuto un tempo, quelle a cui vorrei dar voce, o chi credevo di essere?
Ancora una volta, la Falce porta tutto con sè. Come posso buttarmi fra le sue braccia maledendola, sapendo che ancora una volta, come sempre, le perdonerò ogni cosa?

I nomadi hanno molti volti ma un solo destino.

lunedì 5 settembre 2011

Vino, Kelly e Ur

Controluce in un tiepido sole socchiudevo gli occhi come un gatto. La sera prima avevo finito una bottiglia di vino del '96 trovata in cantina (e centellinata nel corso dei giorni con l'aiuto di un aggeggio di nome "pompa vino": googlate gente, googlate). Alla tv davano un film francese su due amanti, in cui lui le regalava una borsa Kelly di Hermes. Non ho capito molto del resto del film: vini pregiati, frasi a metà, etiquette et savoir vivre finché un bel giorno la donna riceve in regalo un foulard, segno della fine della storia. Lasciavo i due amanti a scaricarsi tra lacrime di lei e frasi fatte di lui mentre io versavo le mie lacrime sulla Kelly bag che non avrei mai avuto.


Nel frattempo Enheduanna di Ur raccontava la sua storia da un vecchio libro.
Sargon il Grande intorno al 2300 a.C. unificò sumeri, babilonesi e akkadi in un impero.
Lasciò la figlia, Enedhuanna, al sacerdozio del dio Nanna, dio della Luna. Ma il re di Uruk preparava la rivolta per impadronirsi dell'impero di Sargon: Enedhuanna fu stuprata, mutilata e esiliata poco dopo la morte del padre.

Lui mi ha dato
Il pugnale rituale della mutilazione
Mi ha detto
“ti dona”
Egli asciuga la sua mano bagnata di sputo
Sulla mia bocca dolce di miele.


Nel frattempo il nipote Naram-Sin sedeva sul seggio di Nanna e elevava se stesso a divinità, disinteressandosi di lei, confinata in terre inospitali: non più di sangue reale, non più sacerdotessa, Enheduanna vagava scrivendo versi alla dea Inanna (Ishtar) nella sua veste di signora della guerra e delle tempeste, affinché calasse sui nemici e ridesse a Enedhuanna il suo posto di Gran Sacerdotessa.

Il suo ululato
come il tuono di Ishkur
e l'urlo come di tempesta
scuote i corpi
fa tremare tutta la carne.
[...] Tu maledici il suo grano
versi sangue nei suoi fiumi
un vento tempestoso distrugge danzando la città
porta a te prigionieri giovani legati da corde.

Le fonti sono lacunose e non sappiamo, quindi, in che modo questo sia accaduto: qualcuno parla di una rivolta di donne guerriere, altri di una battaglia. Enedhuanna ritornò alla fine al suo seggio e le sue lodi a Inanna, il suo racconto e le sue suppliche sono tra le più intense testimonianze che abbiamo di 4300 anni fa. Esistono almeno 500 copie del suo "esaltazione di Inanna", che venivano scritte, cantate nei templi e tramandate a più di mezzo millennio dalla sua morte.
Decisamente uno dei miei personaggi preferiti.

sabato 3 settembre 2011

Foglie

Un rumore d'alberi si leva improvviso.
Ero una stella e cadevo.
Tamburi nel buio, li senti suonare?
Sconvolta di luce
in un pezzo di cielo.
E' già ora di strade.

lunedì 29 agosto 2011

(nuova) carrellata di manie personali

Molte persone amano vantarsi dei propri pregi. Io ho una strana mania. Nacque da un cortometraggio che vidi su TELE+ (quando esisteva ancora TELE+) in tarda serata: lui e lei alla prima uscita, si facevano un lunghissimo elenco di manie personali per esorcizzare il fatidico "terzo mese", in cui quelle cose inizi a scoprirle in ogni caso. Da allora, ogni tanto, siccome è bene non dimenticare di essere un po' testa di cazzo, enumero i miei difetti in liste puntuali e pragmatiche.

Questo è uno di quei giorni.

Sono orgogliosa, dispotica, lunatica, riservata. Uno dei miei soprannomi è fuhrer, l'altro serpente. In pratica un orso. Preferisco infatti grattarmi la schiena sugli alberi che avere a che fare con gli esseri umani, che trovo una razza schizofrenica, pericolosa e noiosa - salvo rare eccezioni. Io appartengo alla razza umana per i primi due aggettivi elencati. Come si evince, sono anche intrisa di un certo senso di superiorità. Aggiungerei che apro le bottiglie di birra con i denti.
Ho la mania di organizzare periodi interi della mia vita in stile ragionier Filini: un esempio su tutti, se devo fare 4 esami in un mese mi divido la vita in "pagine al giorno" in modo da riservare una quota di tempo, calcolata secondo algoritmi precisi e inequivocabili, al mio piacere.
Da quando io sia diventata ossessivo-compulsiva non l'ho capito, credo da quando ho voluto smettere di essere una scapestrata senza speranza, personalità che comunque sopravvive e viene fuori in schizzi improvvisi (vedi "l'onda del mare", ma questa la capiremo in tre!).
Sono letteralmente rapita da tutto ciò che luccica: probabilmente in una vita passata ero un pellerossa che ha barattato sua figlia per due perline e una bottiglia di whisky. Infatti, poco tempo fa, ho comprato da un sordomuto una palla che si illumina cambiando colore e passo serate intere a fissarla come una falena. Il migliore acquisto da 5 mesi a questa parte, ovviamente dopo il deodorante per ambienti che deodora solo se lo incendi, il che soddisfa la mia vena da piromane. (N.B.: non datemi mai della legna e un camino o non parlerò con nessuno per il resto della serata).
Adoro le bolle di sapone, anche se agli altri dico sempre che ci gioco insieme alla gatta: in realtà lei le odia perché le bagnano il naso, ma non mi convincerà mai a smettere.
A volte mi apposto presso luoghi turistici e verso sostanze oleose per terra, sperando che qualche giapponese inciampi. Poi mi siedo e aspetto. Per quelle due volte in cui sono inciampati davvero ne è valsa la pena.

La cosa fondamentalmente grave è che indosso fieramente le mie turbe mentali, con la ferma convinzione che ciò mi renda adorabile. In realtà a prima vista sono antipatica, e molto spesso lo rimango anche dopo.

Se qualcuno volesse partecipare a questo post per una terapia di gruppo, è il benvenuto.

martedì 16 agosto 2011

lettera alla nonna

Fin da piccola mia nonna mi ha detto: "per conoscere una persona non stare a sentire quello che dice su di sé: guarda quello che fa. E prima di aver appurato chi è, non fare con lei né patti né promesse".

Ah, nonna! Se sapessi come mi hai condannata!
Ho sempre seguito il tuo consiglio in prima persona: è così che ho scoperto la via dell'azione. Ho sempre fatto molto e parlato poco, specie di ciò che facevo.
Ma bisogna ammettere, ad un certo punto, che sarebbe molto più comodo adagiarsi su ciò che comunemente, invece, viene fatto: dimostra anche tu il tuo sapere sulla bacheca di facebook! Cita libri che non hai letto e concetti sui quali non hai meditato! Tu hai su anobii 300 libri, tu hai la bocca piena di termini esotici! Hai le fatine, gli incensi, le piantine, i fiorellini, gli gnometti, le pietre, la bacchetta, il pugnale variopinto! Che bellezza!

Riempiendoti la bocca di parole e la casa di oggetti, non dovrai stare a guardare quello che in effetti fai o non fai, il modo in cui agisci: questo è del tutto irrilevante! Difenderai le tue parole e i tuoi oggetti fino alla morte, contro chiunque li attacchi: essi sono la tua idea di te e del mondo.

Cara nonna, se fossi vissuta all'epoca delle vetrine sul web saresti inorridita, nell'epoca in cui conta la foto che metti, non la faccia che hai. Conta l'hobby che selezioni da un elenco, non quello che effettivamente hai: scrivi "viaggi" e non hai mai passato la frontiera. "Giardinaggio" e hai un cactus. "Stregoneria" perché compri i cristalli e fai gli orecchini di fimo.


Mi tolgo il cappello con te, nonna, di fronte agli spagiristi che si sporcano le mani in laboratorio e hanno sentito il rumore pauroso e improvviso delle esplosioni; dinnanzi al tantrika che spende anni di preparazione in astinenza e devozione; di fronte all'aghori che vive una vita d'orrori per compiere i suoi sadhana; di fronte al monaco dell'ora et labora e all'asceta che digiuna per giorni. Di fronte a quelli che per anni si alzano all'alba ogni mattina per salutare il sole. Di fronte agli uomini che poco parlano, non usano ciò che fanno come una vanteria da vetrina e molto agiscono.

E di fronte a te, nonna, i cui sforzi sono stati ripagati perché, come mi dicevi, "se tu metti nella moka l'acqua e il caffé non uscirà mai il tè: se esce il té e qualcuno ti assicura che ci aveva messo il caffé, sai che sta mentendo. Così, puoi giudicare il passato dal presente, e dal presente intravedere il futuro."

martedì 2 agosto 2011

fatal error


Credevi di andare in vacanza...
Quando una pila di libri ti aggredisce.



 Causa iperattività dell'omino del cervello 
il blog della cappellaia matta va in stand-by.

 
Buona estate a tutti: lavoratori, disoccupati, in ferie o in perenne vita universitaria.
 
Ci rivedremo quando il carico di lavoro 
avrà assunto proporzioni umane.

domenica 24 luglio 2011

suicidio burocratico

Non è che lui fosse "un" superavvocato, superprofessore e superuomo.
Era un proverbiale stronzo la cui fama lo precedeva.
Ne avevo sentite su di lui talmente tante che quasi eguagliava i pettegolezzi che precedono me medesima.
Forse proprio per questo provavo simpatia per un quell'uomo dell'acquario un filo narcisista, tendenzialmente filantropo e perennemente superimpegnato.
Avevo capito che con lui le cose non andavano nei canonici modi già quando mi diede appuntamento per un colloquio e mi trovai a un banchetto universitario con un bicchiere di vino in mano a parlare con professoresse ubriache affette da ridarella.
O quando mi fece un colloquio mentre scendeva le scale, anticipando "bene: prima lei, poi lui, poi scendo le scale con lei".

Ma stavolta s'è superato.
Dovevo laurearmi a febbraio e già finire 6 esami di legge entro settembre mi pareva un'impresa epica (sono a quota 3), metterci anche la tesi pareva un suicidio. Senza troppe speranze gli butto lì una lamentela sul fatto che, anche laureandomi a ottobre, non avrei il tempo di cercare uno studio per iniziare la pratica legale entro novembre.
La risposta, immediata, fu: "Gentile Dottoressa [lapsus o provocazione?, NdA], vediamoci e tentiamo l'impossibile. Uno studio lo troviamo senz'altro, se vuole anche il mio. Ci vediamo mercoledì o giovedì per un piano di battaglia. Non può certo perdere un anno!"
Il relatore in questione deve un anno di vita a tutta la famiglia (gatto compreso) causa urlo di gioia.

Burocraticamente parlando, ciò che sto tentando di fare è un suicidio: dovrò reperire 13 (E DICO, 13!!!) certificati di varia natura da depositare presso il Consiglio dell'Ordine degli avvocati, e dopo la laurea avrò tempo una settimana per farlo.
Ma questo vuole anche dire che a novembre avrò una casetta e lavorerò.

Seguiranno aggiornamenti.
Vostra, Ally McBeal

mercoledì 20 luglio 2011

cos'è un "legame"- o laccio.

Sono giunta alla conclusione che abbiamo concezioni molto falsate dei rapporti umani. 
Per la maggior parte delle persone, un rapporto è tale se si crea una cosa che chiamano “legame”.
Legame.
È un termine molto brutto: il suo primo significato è “legatura, laccio”.
Ovvero, dipendenza.
Non importa come questa dipendenza si maschera con parole o filosofie di vita "indipendenti" o "anticonformiste": bene o male, è una malattia da cui tutti sono affetti. Se il fine del “laccio/legame” non è il matrimonio/convivenza (laccio amoroso) che richiede ovviamente anche che altre pretese preliminari siano soddisfatte in un certo ordine, sarà “ho bisogno che tu venga qui immediatamente, qualunque cosa tu stia facendo” (laccio dell’amico/a).
Frasi ricorrenti nel lessico del laccio sono, ad esempio, “non ti fai sentire abbastanza”, calcolandosi quell’apparentemente innocuo “abbastanza” in virtù del comunemente accettato criterio per cui “le cose devono andare in un certo modo”, il che non comprende solo “tutti i giorni”, ma progressivamente mira a voler comprendere un arco di tempo indefinito ogni giorno in cui bisogna soddisfare la necessità altrui di sentirsi al sicuro, coccolati, ascoltati e accettati. Perché da soli non siamo in grado di darci queste cose. Più soddisfi l’aspettativa, più la sua fame cresce. E se un giorno non le dai da mangiare, potresti anche sentir parlare di “mi devi gli arretrati”.
Devo? Ho firmato qualcosa? No, ma non ha importanza: "è ovvio volere certe cose". Un tacito accordo sociale, pare. La questione si fa quasi interessante, un sociologo si scatenerebbe.

Se questo criterio di vita relazionale tu non lo accetti, niente paura: ce n’è per tutti i gusti di risposte con cui si fa un passo indietro!
Ma, in realtà, togliere questo concetto dalla testa dell’essere umano è pressoché impossibile: ci saranno sempre aspettative e pretese. Se non è oggi, diamole tempo: riproveremo domani e casomai faremo di nuovo il passo indietro. L’aspettativa non cambia, può solo rimanere malcelata per qualche tempo.

Non bastiamo a noi stessi e, anzi, siamo tremendamente annoiati da noi stessi.
Per questo si crea la dipendenza.
Per questo non è mai “abbastanza”.

martedì 19 luglio 2011

il custode del tempo- parte 2


L’ultimo giorno.

I millenni scivolarono. Il custode cambiò pelle innumerevoli volte. Trasferiva il suo spirito da un corpo all’altro, rinnovando la sua giovinezza. E poco a poco, il corpo ospite prendeva le sembianze inconfondibili del suo sguardo senza tempo, del suo passo senza fretta.

Il cielo d'aprile appariva, all'occhio attento, un singulto di sole nel vento ancora freddo. Le braccia delle donne erano impazientemente nude. Camminavano svelti, i brav’uomini di ritorno dal lavoro; le coppie sottobraccio affollavano i portici. Ogni tanto, una moneta da due soldi tintinnava nella scodella accuratamente dipinta di un pittore di strada.
Dipingeva con la grazia di chi ha tempo infinito - fissando a tratti un punto imprecisato - sempre lo stesso uomo: una figura stretta in un mantello nero, con un cappello calato sugli occhi. Solamente un quadro mostrava lo sguardo di quell’uomo sul fondo di una notte stellata: vivo, bruciante, infinitamente profondo. Su quella tela era posto un cartello chiaro con una scritta blu: "NON IN VENDITA".
Una ragazza lo avvicinò, dai lunghi capelli scuri, serena, ma in fondo piena di una profonda, viscerale vita celata nell’abisso degli occhi color giada. Fingeva di guardare i quadri con attenzione, ma tra una pennellata e l'altra scrutava lui, il pittore di strada.
“Conosci quest'uomo?” gli chiese all'improvviso.
L’artista strinse il pennello, staccandolo bruscamente dalla tela. Alzò cautamente gli occhi, come chi si svegli da un sogno per catapultarsi in un altro. Con sguardo teso scrutò la ragazza.
No, non sembrava la persona che da tempo aspettava. Troppo ben vestita, troppo giovane.
Insinuandosi nel profondo di se stesso, il pittore fissò senza aspettativa gli occhi di lei.
In un lampo, la sua mente gli bisbigliò ciò che intendeva sapere: è lei.
“L'ho conosciuto” rispose allora “molto tempo fa.”
“Molto tempo fa…” ripeté lei. “Allora tu forse sai... dove posso trovarlo...”
Il pittore tacque. Le sue mani intrisero nuovamente il pennello nel colore, dando forma sulla tela ad un cielo plumbeo. La ragazza mise nervosamente le mani nella borsetta, frugò per qualche istante e ne estrasse infine il portamonete.
“Posso comprarti due quadri, se vuoi.” L'uomo non rispose, né alzò gli occhi dalla tela. “Devo sapere dove si trova.”, insisté la donna.
In un lampo, l'uomo fulminò la ragazza, senza muovere un muscolo: 
“Tu non sai di cosa stai parlando. Ora vattene. Non voglio i tuoi soldi... né il tuo corpo, se è questo che hai intenzione di offrirmi.”
Nulla pareva essere accaduto per i passanti eppure la donna arrossì violentemente, guardando l’asfalto sotto i suoi piedi. La furia la pervase, ma la dominò rilasciando dolcezza nelle vene.
Rimase ancora qualche secondo a fissare i quadri, cercando inutilmente un pretesto per andarsene o per restare. Lo sguardo di quel dipinto era ciò che cercava da un tempo infinito. Forse, si era lasciata trasportare dall’immaginazione… ma amava profondamente quel pittore di strada. E in un lampo, la mente le disse ciò che voleva sapere: è lui.
E in un lampo il caleidoscopio si animò. L’eterno gioco ebbe inizio, sul filo del rasoio delle possibilità.
La donna scivolò col vento lungo la via, senza riuscire a confondersi tra la folla. Si allontanò di un centinaio di passi, sentendo gli occhi del pittore perforarle la schiena, poi entrò in una bottiglieria in fondo alla strada.
Il pennello, inesorabile, accuratamente evocava uno sfondo identico agli altri: sfumature larghe, orizzontali ed annacquate, distese ed inquiete come uno squarcio di tempesta in una notte senza fine. Quando la luce del giorno fece spazio all'ocra ovattata del tramonto, il pittore raccolse lentamente, pazientemente, una ad una le sue tele, le avvolse in una consunta cartella di cartone legata da un grosso spago, chiuse la valigetta e si avviò alla solita taverna in fondo alla strada. Lasciva e rassegnata, la porta troppo oliata si fece aprire senza sforzo. L’artista scivolò dentro, sul tavolo in fondo alla sala con l'illuminazione più tenue, di lampade ad olio. Un uomo dal grembiule bianco a tratti intriso di vino gli servì una bottiglia di rosso senza etichetta ed un bicchiere largo e basso, di vetro grosso.
Solo allora, alzando gli occhi per fare un cenno abituale di ringraziamento, il pittore si accorse che il tavolo di fianco era occupato da una giovane donna che lo fissava. Sembrava la stessa ragazza che gli aveva offerto dei soldi quel pomeriggio, ma non poteva esserne certo: sembrava più adulta, più donna, più consapevole. Maledettamente consapevole.
Il suo sguardo aveva qualcosa di felino, come un leopardo acquattato che prepari un agguato. Forse era la luce soffusa delle lampade ad olio a giocar strani scherzi. Forse non era lei.
La donna si alzò dalla panca di legno su cui sedeva e si spostò di fronte a lui, prendendo posto su una sedia robusta.
“Non le chiederò se posso sedermi” esordì accavallando le gambe e mescendosi del vino. “D'altronde lei è solo, dico bene?”
“Faccia come crede” rispose lui “Aspetto qualcuno.”
La donna si sporse sul tavolo, cercando il suo sguardo in un sorriso sarcastico:
“Chi aspetta? La sua donna, forse?”
Un sorriso a denti stretti, malizioso, inondò di cinismo il viso del pittore.
“Lei sa chi sto aspettando. Forse, non immagina da quanto.”
Gocce di rubino inondavano le labbra, nel silenzio quasi teso di un'atmosfera rarefatta e surreale. Gli sguardi si penetrarono a vicenda come in un istantaneo amplesso sottile. Mani di perla accarezzavano il bordo del bicchiere e le labbra si schiusero in parole di velluto:
“Ti ho osservato... sì, i tuoi occhi assorti nel colore... le tue giornate scorrono conformi alla tua promessa, da tempo immemorabile... per quanto ancora la tua fede rimarrà intatta? Per quanto ancora aspetterai la nuova razza, perchè ti dia una seconda morte?”
No, il pittore non si stupì delle parole della donna. Non si stupì che conoscesse la sua storia né che i suoi occhi, in superficie candidi, rivelassero un abisso che all’inizio della sua esistenza l’aveva scrutato superando il velo del tempo. Gli occhi che di vita in vita aveva rammentato, senza mai scorgerli per la strada. Nulla più poteva stupirlo né toccare le corde superficiali dell'emozione che tormenta l'animo umano. Un’apparente freddezza lo pervadeva, lo attorniava, come una scorza di ghiaccio che per incanto riesca a celare una fiamma inesorabile, celata nel profondo.
“Un giorno, resuscitando dal mio sepolcro nella pantomima della morte, la vidi: aveva varcato la soglia dei mondi. Mi scrutava. Credetti a un sogno, ma cambiando pelle capii: la lotta eterna contro la morte aveva avuto inizio. Raccolsi l’umano sapere in attesa dell’ultimo giorno. Ma quale domanda lei volesse pormi, non lo seppi mai con certezza. Non ho mai avuto l’onore di rivedere il suo sguardo, ma l’attendo da sempre. Infinite vite ho passato su questa terra, chiamandola per nome. Ma lei non rispose mai.
No, non è fede la mia attesa. È necessità. Questo corpo vive da molto, vagando per celare la sua eterna giovinezza. Agisco nell’ombra e la sera attendo. Non mi è dato sapere in che forma lei verrà a liberarmi, ma riconoscerà l’Occhio del cielo nei miei dipinti. E mi farà quella domanda che da sempre attendo. Mi chiederà, come sempre, se persevererò nella speranza o se abbandonerò la terra.”
D’improvviso, lo sguardo della donna si svelò. Quella superficie candida e morbida come il velluto si denudò in uno strapiombo di fiamma infinita, senza appigli, senza fine.
“Eccomi.”, disse soltanto lei. “E dunque, qual è la tua risposta?”
“Quella di sempre.”
La donna rise e versò altro vino.
“Pur sempre umano rimani: colmo di testardaggine che ti ostini a chiamare speranza. Per quanto ancora, custode, ripeterai tu stesso gli stessi gesti, come un criceto in gabbia?”
La visione davanti allo sguardo dell’artista di strada cadde in mille pezzi, i muri si sgretolarono come vecchi cocci scagliati nel nulla.
Per quanto ancora?
“Non è possibile. L’uomo deve essere salvato da una vita da lupo selvaggio, senza alcun sapere.”
La donna rise.
“E chi credi che possa porre fine all’eterno ritorno, custode? Chi credi possa cambiare un tassello del mosaico?”
L’uomo tacque. Bevve un sorso di vino. In silenzio finirono l’intera bottiglia. Mani nelle mani, intrecciati come colli reclini di cigni. Un istante senza tempo prima che cali il sipario. Un sorso ancora. Un respiro ancora. Ancora amore mentre si spezza il filo del mondo. In bilico sulla stretta lama del tempo come vecchi amanti: pur sempre umani.
In un plumbeo silenzio, lui si alzò. La donna attese qualche secondo ancora, poi oltrepassò la soglia della taverna per sprofondare nell’ombra notturna. I due si allontanarono nella notte senza strade e al pittore bastò guardare un solo istante la città di carta che franava per capire che non doveva lasciare traccia del suo passaggio. Bruciò le sue tele, i pennelli, i colori, bruciò ogni traccia di sé.
L’uomo non le chiese se aveva paura della morte.
Nessuno si accorse della loro scomparsa, ancora una volta nessuno pianse la loro partenza.
L’indomani le braccia nude delle donne, gli sguardi bassi dei brav’uomini che tornavano dal lavoro, i portici invasi dalle coppie sottobraccio, non si avvidero che l’artista di strada che vegliava su di loro da tempo immemorabile aveva spezzato le sue catene.
Silenzioso come un’ombra, senza lasciare traccia, dissolse il suo corpo e fu libero.
Il cerchio dell’eterno ritorno fu spezzato.
Ameranno e soffriranno, i figli di nessuno: lupi, belve, santi o eroi.
Pur sempre umani.
Stavolta liberi.
Ed essi sapranno che il futuro è nelle loro mani.

sabato 2 luglio 2011

Il custode del tempo

Che accadrebbe se un giorno o una notte,
 un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini
e ti dicesse:
“Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta,
dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte”?

Nietzsche, La gaia scienza

Nessuno si ricorderà di noi quando il fiume del tempo avrà spazzato via ogni traccia di ciò che fummo. Non vi saranno leggende, crolleranno i palazzi, i dati dei nostri computer scompariranno con loro. I nostri fogli subiranno la furia del tempo, delle tempeste. Nessuno rammenterà questo tempo perduto nell’etere quando non vi saranno più fili. Così, ancora una volta, dimenticheremo.
In una stanza fuori dal tempo uno solo attenderà. Altri passeranno, arriveranno, chiederanno, tenteranno. Moriranno come ombre.
Solitudine. Silenzio. Buio. Forse pazzia. Una strana forma di silenzio coglierà la sua mente. Pregno e saturo da non poterne uscire. Fuggirà la folla e quando Babilonia la Grande cadrà sarà lontano. Isolato. Con tutto ciò che il tempo, la sua mente e il suo cuore gli permisero di comprendere. Con tutto ciò che il tempo avrà fatto di lui e il suo ingegno gli avrà permesso di realizzare.
Non conoscerà i nomi dei sopravvissuti. Baderà soltanto a restare in vita e custodire il suo tesoro: la sapienza dell’umanità. In una estenuante lotta contro la morte.
Un giorno, qualcuno giungerà alla stanza fuori dal tempo: vestito semplicemente, arretrato. Occhi spalancati e innocenti, più simili a quelli d’un animale che a quelli di un uomo. Coperto soltanto di una pelle animale, sporco e dalla barba appena accennata per via della giovane età. Specchio della nuova umanità di cui è parte. Un’umanità giovane eppure antica quanto la Terra stessa.
Il mondo sarà cambiato, nel frattempo.
Specie animali si saranno estinte e i ghiacciai avranno cambiato forma, i continenti avranno disegnato nuove linee di confine. In questo nuovo e antico scenario nient’altro che un pastore varcherà la soglia in cui il custode preservò il fuoco di Prometeo.
E la storia si ripeterà.
Ancora una volta, il pastorello sgranerà gli occhi nel sentire in una lingua incomprensibile e non sua: “Ti aspettavo.”
Il vecchio custode, non capito, parlerà allora alla mente del giovane che, terrorizzato ma rapito dalla mano del destino, non potrà fuggire e ascolterà.
Non potrà fuggire, rapito da un ineluttabile destino.
Vedrà davanti ai suoi occhi un uomo di un’età cui nessuno della tribù sarebbe mai giunto, e lo crederà immortale. Vedrà nella sua postura e nei suoi vestiti una razza superiore. Il custode mostrerà ciò che anni di silenzio gli avranno permesso di serbare.
Il giovane trasalirà come si trovasse dinanzi a un Dio nel vedere ciò che il vecchio custodiva: il fuoco. Il metallo. L’agricoltura. La magia.
Non tornerà dai suoi che dopo molto tempo, dopo aver imparato tutto ciò che il tempo e la sua ragione gli avrebbero permesso di comprendere. Si parlerà di lui come di una leggenda vivente, un prescelto dagli Dei. Sarà chiamato Anzty, Osiride, Prometeo, Lucifero, Azazel, e gli uomini gli daranno ascolto perché mostrerà loro i prodigi della scienza umana. Essi coltiveranno i campi e andranno a caccia con arco e frecce. Si scalderanno nelle notti d’inverno davanti al fuoco. Il giovane prenderà qualcuno con sé e lo istruirà su ciò che non è indispensabile alla sopravvivenza, ma che dovrà essere tramandato. Affiderà il compito che fu suo e metterà le radici di ciò che in futuro si chiamerà religione.
Faranno tutto ciò senza sapere che così è sempre stato. E sarà sempre.
Nessuno saprà che un mondo, molto tempo prima che venisse l’oblio dal quale essi nacquero, era esistito. Non sapranno che un mondo esisterà di nuovo e che la loro giustizia e la loro ingiustizia lo forgeranno.
Non sapranno della catastrofe, della ribellione delle forze sotterranee che passo dopo passo distrussero la terra costringendo gli uomini ad ammassarsi gli uni sugli altri, lentamente, mentre la pazzia dilagava ed essi si uccidevano a vicenda o sopravvivevano nel terrore animale, ridotti a vagabondare in cerca di cibo, dimenticando gli alti palazzi, il lusso, la cultura e l’arte per la necessità di sopravvivere.
Essi non sapranno.
Scopriranno di nuovo il linguaggio. Scopriranno nuovamente l’arte e la pittura. Le anime già vissute si incarneranno nuovamente e istintivamente ricorderanno quale fu il loro posto. Tutto accadrà di nuovo. Ci saranno nuovi geni e rifioriranno arti, scienze e religioni. Gli Dei saranno risvegliati e le leggende resusciteranno.
Ed essi non coglieranno la sensazione d’aver già visto, già vissuto.
L’ignoreranno.
Cercheranno il piacere, il lusso, il divertimento, l’amore, il sesso, la sazietà. Correranno, lavoreranno, si faranno la guerra, evolveranno. Forse faranno scelte diverse e il nuovo mondo sarà differente dal primo. Forse stavolta sarà migliore.
È questo che spera l’uomo nella stanza fuori dal tempo: di epoca in epoca, di apocalisse in apocalisse, istintivamente il guardiano incarnandosi riprende il suo posto nell’antico sarcofago, e ancora una volta inizia la lotta contro la morte, per conservare. Per tramandare ciò che orecchi umani dimenticheranno. La peggiore maledizione degli uomini è che essi dimenticano.
Il custode che attraverso i roghi dell’Inquisizione, attraverso le persecuzioni dei martiri, attraverso la derisione degli scienziati e le grida dei Voltaire, tace e conserva l’unica chiave per uscire dal labirinto e per civilizzare la nuova umanità, in attesa che essa si liberi dal giogo della sua stessa fascinazione e faccia del mondo quel Paradiso che cerca nei sogni dell’aldilà, e che millennio dopo millennio diventa sempre più impossibile far vivere, mentre le ingiustizie mettono radici e formano le membra del Golem implacabile. Il Golem che la distruggerà, dando inizio a un nuovo ciclo. Così nasce l’ineluttabile morte dell’umanità: la giustizia e l’ingiustizia decretano la fine o l’estasi eterna.
Nessuno, di apocalisse in apocalisse, ha mai conosciuto il nome del custode. Non ci sono leggende su di lui, sulla sua personalità. Qualcuno a volte bisbiglia di un Errante dai poteri meravigliosi. Qualcuno a volte parla di un grande segreto. Egli non è che un uomo che ricorda, l’ultimo di una lunga stirpe d’eroi nascosti che attraverso le epoche tramandarono la Scienza del bene e del male per lasciarla nelle mani dell’uomo nuovo, nel momento del bisogno.
Perché il mondo sarebbe nelle mani dei lupi se anche in una sola Era mancasse la speranza in un risveglio della coscienza umana.
Il Cherub fiammeggiante ancora attende, alle soglie del tempo, ai cancelli del sogno, che quel custode s’arrenda o perseveri nella sua follia. Che si lasci morire nella sua pace invece di attendere pazientemente - sfidando la Falce - il pastore a cui affidare i doni per la nuova umanità, pur sapendo cosa ne aveva fatto la precedente. E cosa continuerà a farne.
Il Cherub attende che il custode dichiari l’umanità senza speranza e l’abbandoni, o pronta a ricevere il suo Eden e, con questa speranza, l’aiuti. Attende di sapere se il suo cuore si arrenderà o farà iniziare un nuovo ciclo, con una speranza che mai muore.
Ed essi non sapranno che il futuro è nelle loro mani.

giovedì 23 giugno 2011

Perché Alice... parte seconda

Situazione:
ore 2 e 40 antimeridiane; sarebbe a dire le due e passa di notte:
Di ritorno da un reading di poesie di Jodorovskj - forse c'è chi lo ricorda per aver sentito qualcuno urlare nella notte "La montagna sacra è una cagata pazzesca!!!" -, cui fa seguito pasto luculliano e diverse birre.
Il mattino di ieri era stato dedicato a uno dei pochi esami mancanti per la mia uscita dall'università, esame del quale attendevo di sapere se avevo passato lo scritto.

Ci siamo fin qua...?
Bene.

Dicevo, ore due e quaranta di notte apro la cartella online dei risultati degli esami scritti: porca miseria sono già usciti. La data dello scritto è quella di ieri, c'è il nome del prof, c'è il mio cognome con scritto a fianco che devo presentarmi stamattina alle 9 per l'orale.
Alle 9?? Guardo l'orologio. Tra 6 ore.

"Poche paranoie", mi dico. "Metti la sveglia alle 6, ripeti tutto, alle 9 vai lì e ti togli questo esame dalle palle."
Dopo 3 ore di sonno mi metto in cucina con un caffè doppio, ripeto tutto, vado in aula, rispondo all'appello.
Dopo 45 minuti chiama il mio cognome e il nome di un'altra.
Rimango per un attimo basita e confusa.
Chiama di nuovo: "B. Irene. C'è B. Irene?"
Dico: "Scusi, io sarei B. A. Ho fatto ieri lo scritto di civile 2."
"Alice nel paese delle meraviglie (testuali parole, eh!), questo è civile 1. Io il suo compito non l'ho ancora corretto."
O____O'  "No, ma scherza?"
"Signorina, non scherzo. Torni pure a dormire. C'è B. Irene?"
B. Irene non c'è.

Morale: quando guardate gli esiti di un esame alle 2 e 40, prima di prendere iniziative compulsive e coraggiose, assicuratevi di leggere i numeretti scritti in piccolo.
E al caro prof.: per favore, metta i fottuti nomi nelle liste, così nel caso sia brilla, assonnata e/o incapace di leggere il numeretto, almeno so benissimo come mi chiamo.

p.s.: dopo due caffè doppi, col cavolo che adesso riuscirò a dormire!!!

mercoledì 15 giugno 2011

Giullare

TRATTO DA: "Il Labirinto degli Specchi", ed. Morellini

Un inizio. Punti il sicuro, vince la sorte.

La notte ha un cuore. 
Un respiro. 
Un profumo che avvolge i sensi. 
Tu che lo sai la guardi, sorridi alle stelle. 
Annusi la luna. 
Assapori golosa l'odore della pelle fresca di primavera.
Assapori chilometri all'ora di vento pallido.
Il tuo sospiro è l'Eden, il tuo languore una stella. 
Tu che lo sai, aspiri morte ed espiri vita. 
Un attimo eterno, un singhiozzo che ha un eco, 
un sangue dal ritmo cadenzato ed insondabile. 
Un istante è un mistero. 
Una maschera è un gioco. 
Una scelta è una puntata al casinò. 
Colore o numero? 
Sicurezza o sorte? 
Alcuni puntano il sicuro. 
Vince la sorte. 
Trionfa l'ideale dato per sconfitto. 
L'azzardo a volte...l'azzardo vince premi grandiosi. 
E mentre alcuni rimpiangono la puntata mancata, 
scivolano passi sconosciuti nel cuore della sera.
Capogiro. Fremito. Fermate il mondo.
No, non è niente…solo un soffio di vento, passa in fretta sapete. 
Non è nulla.
Non è nulla, non è nulla…continuate a camminare, 
sguardo basso, sfollate, sfollate, 
senza mai guardarvi negli occhi 
per paura che siano specchi.
Incontrerete giullari sulla vostra strada, simili a me. 
Incontrerete maschere che si credono attori 
e attori che indossano una maschera 
per confondersi tra la folla 
con la scusa della notte. 
Forse, incontrerete anche me…
il giullare, il pazzo, il folle, 
che crede d’essere tutti voi e non è nessuno. 
Quest’ombra senza volto, questo volto perfetto, 
uomo o donna difficile dirlo, 
giovane o vecchio non sapreste indovinarlo. 
Troverete che vi amo e vi odio indistintamente 
e poco importa, 
troverete ragionevoli le mie azioni più folli e pazze quelle più studiate. 

Capire è insensato, non c’è nulla da capire sapete. 
Solo il volto del sole con infiniti occhi, infiniti pensieri, 
simili eppure diversi. 
Antichi eroi di epoche remote travestiti da uomini di questo tempo. 
Questo tempo come tutti gli altri, che nulla è cambiato e sono tutte fandonie, 
sono cambiate le dimore e i luoghi di lavoro, 
e la vita si svolge identica a se stessa: 
ognuno inventa la sua sorte, ognuno può diventare una cometa, 
ognuno cerca impossibili stabilità in equilibri precari, 
convinto che sarà la volta buona.

Questo giullare non vede più differenza tra passato e presente, 
tra sé e gli altri, vede solo la luce e l'ombra dei pensieri e delle azioni, 
ma ha smesso di condannare o di assolvere. 
Vive ogni istante come fosse l'ultimo, 
con la  sola meraviglia di sapere che la vita terrena 
è un alleato nel gioco dell'universo.
Sul filo di un rasoio gioca a fingere di cadere, 
come i migliori equilibristi, 
prima di stupirvi con infinite capriole sospeso.
Brivido della folla.
E lui….e lei….
….cammina….salta….cammina….
Ride.

Notte metropolitana. Osservo intorno. 
Sottile competizione in cui la preda perde importanza. 
Tensione nell'aria. Arrampicatrici sociali, 
saette nello sguardo e voglia d’apparire migliori. 
Uomini impomatati lanciano fischi, fieri del loro vestito. 
Illusioni nel buio. Miraggi nel deserto.
Passo oltre.
Notte metropolitana. 
Camminando sola e tranquilla nel cuore della notte 
assaporo chilometri all’ora di vento pallido, 
sospesa sulla soglia del tempo. 
Brilla il mondo nella mia mano, 
sorridono languide le stelle al mio sospiro, 
in un universo senza ombre in cui la vita fluisce ritmica 
e pulsa come sangue nelle vene. 

Danzano le foglie al suono del respiro, 
presagio d’estate nell’aria, il treno sta per partire. 
Questo istante presto sarà nel passato, 
come una favola da raccontare: 
al casinò ho puntato sul numero, non sul colore. 

Guardate dall’alto le luci che invitano al rischio, 
che impreziosiscono il corpo d’adrenalina.
La donna dal pallore lunare e lo sguardo assorto nel sole 
è al tavolo della roulette.
Segue per  quindici minuti le mosse del croupier, 
il movimento della sua mano, il modo in cui lancia la pallina. 
Crede d’essere lui, gli entra dentro in silenzio, 
attraverso la sua fronte imperlata di cocaina.
Sempre lo stesso gesto, la stessa potenza: 
la pallina scivola, atterra sulla ruota, 
nove giri interi, ancora un quarto di giro più tre caselle. 
Nove giri interi, ancora un quarto e tre caselle.
Si ferma sul 35 nero: il gioco è fatto.
La donna attende, l’espressione del croupier è attraversata da un’ombra.
Stavolta lancerà la pallina con meno forza.
Attende un turno.
Nove giri, ancora un quarto e due caselle.
Un esperto giocatore punta tutte le fisches sul nero, 
e ride della donna imperturbabile che con sicurezza 
punta ogni centesimo sul 28 rosso, 
senza muovere il sopracciglio vedendo sul tavolo 
ogni goccia di sudore della sua fronte, di lavoro per anni. 
Digressione in un discorso concitato, 
in cui l’esperto di fronte a me, luna macchiata di bianco, 
spiega la sicurezza del puntare sul colore, 
non si punta mai tutto sul numero, è la legge delle probabilità, 
tolga i suoi risparmi, non si faccia prendere dal turbine, signorina, 
la vedo già ubriaca costretta a farsi offrire da bere dai fortunati della serata.
Sorrido.
Adrenalina.
Ci guardiamo negli occhi un tempo infinito 
mentre la roulette gira come il ciclo della vita, 
mentre la pallina rotea inesorabile come se non dovesse mai fermarsi, 
trascinando pensieri cadenzati al suono metallico.
Nove giri, ancora un quarto e tre caselle.

“Ventotto. Rosso.” 
Annuncia alla fine il croupier a voce alta, 
nel suo smoking fuori dal tempo, 
nella sua pelle tesa da polvere bianca, 
nei suoi occhi spalancati d’esaltazione interiore e battiti accelerati.
Silenzio. Il gioco è fatto.
“Punti il sicuro. Vince la sorte.” 
sorride la donna al giocatore rimasto in mutande 
a chiedersi per chi…..
per cosa…..aveva giocato tutto sul sicuro.

Ed ora le note mi attraversano come neve su un torrente 
e si sciolgono nel battito di un cuore che trascina il mio corpo alla vita 
secondo dopo secondo.
Tum, tum.
Sangue circola ambiguo 
nel suo doppio senso inventato dal dio geniale.
Tum, tum.
L’aria è limpida come un lago setoso 
e tutto suona una melodia trasportata dalle correnti.
Tum, tum.
Oggi ho abbracciato a lungo mia madre 
e ho visto il suo sguardo accendersi d’amore fino alle lacrime. 
Amore resuscitato.

Cantastorie notturno sull’orlo dell’abisso.
Passi fragili come camelie.

Eterna adolescente è questa notte vergine da violentare, 
godendo del suo amore e del sospiro bagnato 
mentre si scopre donna.
Sfodero il fascino notturno solo per i suoi occhi, 
celandolo incontrando altri sguardi.
Non è per voi quest’ambrosia, sfollate, sfollate.
Bella per gli occhi del dio geniale.

Cammino e non guardo la strada: 
guardo il soffitto del mondo riempito di stelle da mani sapienti, 
gioco a rincorrere sogni ormai spenti 
come se tutto avesse importanza.
Dove si nasconde il mondo?
Strano a dirsi, sembra solo un sogno.

Burattinaio, alza il sipario.
Mostrami chi sono stata prima d’essere un giglio notturno.

Riflessi nel manto scuro brillano, allucinazioni, 
piccoli diamanti danzano nell’etere visibile.
Così iniziò tutto:
Ricordi lontani di figlia del vento. 
Quercia dalle foglie rosse facilmente scalabile per vedere oltre la siepe.
In trappola dentro un recinto come i maiali. 
Desiderio di chilometri di distanza. 
Struggente bisogno di fuga. 
Stabilità precaria. 
Equilibrio inesistente. 
Limitazione di movimento.
Così iniziò tutto.

Allontanati da qui.
Non posso andar via.
Allontanati da qui.
Non posso andar via.
Allontanati da qui.
Non posso andar via.

Riflesse nel manto scuro, allucinazioni: piccoli diamanti nell’etere visibile.
Una mattina come tutte le altre, uscii di casa per andare dove sempre.
Qualcosa di profondamente commovente: 
una figura scura, animale in gabbia che a testa bassa si reca in un’altra, 
senza protestare se non nello sguardo.
Contai i passi fino a quarantanove.
Mi fermai, contai l’assenza di movimento fino a quarantanove.
Mi girai, tornai indietro ed aprii la porta di casa.
Perfezione del ricordo.
Presi tutte le cose che sarei riuscita a trasportare.
Era il 17 gennaio.
Molti anni fa.
Diversi tentativi già falliti. 
Stupida vigliacca. 
Speravi fosse la volta buona, l’hai sperato con tutta te stessa.
Alla rinfusa buttai gonne, pantaloni, gioielli, quaderni, maglie, giacche, scarpe, canottiere per l’estate, costumi da bagno, bambole di porcellana, ricordi, rabbia, dolore, coraggio, paura, sollievo.
Due valigie da 30 chili, tutti i miei averi.
Stracciai i ricordi per non avere nulla da rimpiangere, 
inventai un nome nuovo da portare addosso.
Battezzai me stessa in un caffè amaro.
Lo scrissi su un foglio che poi buttai via.
Nessun soldo in tasca se non per il biglietto di un treno 
che andasse più lontano possibile, non sapevo dove.
La sera prima un amico a 750 km di distanza aveva detto 
“se hai bisogno di un tetto sulla testa chiamami.”
750 chilometri, un tetto in mezzo alla foresta, sarebbero bastati.
Con chi, non aveva importanza. 
Sarebbe stato come esser sola.
“Mercato dell’oro, venderò i gioielli e qualunque cosa possa vendere, senza rubare nulla.”
“Non fare l’errore di lasciar qui le valigie mentre vai a vendere i gioielli.
Silenziosa come un’ombra, lascia questi muri imbiancati.”
Uno.
Due.
Tre.
Corri verso la dannatafottutissimaporta prima di cambiare idea.
Corri non ti fermare: chi si ferma è perduto.
Senza sforzo trascinai nella corsa 60 chili di valigie, 
verso la porta, verso una vita da inventare, 
da tessere con le mie mani, una vita in cui non sarei più stata la stessa: 
prima d’uscire scrollai le scarpe dalla polvere del passato, 
dall’immagine di me stessa, sull’uscio di casa mia. 

Richiusi la porta, ora solo una porta.
Speravamo tutti fosse la volta buona.
Lo speravamo con tutti noi stessi.
Non posso farci niente.
Devo andare.
Non chiedermi dove, ti farebbe solo male.

Lontano. Da. Qui.

Sorridendo senza rimpianti, 
annusai l’aria ghiacciata e non mi sorpresi di non sentire freddo.
Tutto era nuovo ed insondabile.
La mia prima partenza.
La mia prima nuova vita.
Perfezione del ricordo, sai, Grande Burattinaio.

Così iniziò tutto.

Ramingo sfrontato, attore dalle mille maschere, ricordo di mille volti.
Esistenze passate ricamano il presagio d’un avvenire impenetrabile.

Da quel momento il nome scritto sul foglio prima d’andarmene 
divenne il portafortuna della mia vita,
un segreto da tenere in tasca 
come una conchiglia regalata da un amante eterno.
Una piccola spirale scelta tra mille per la sua perfezione, 
madreperla che luccica all’interno, 
non è stata la prima a capitare in mano. 
E’ stata scelta pensandoti. Lo sai.

Ed ora l’aurora risorge, ancora una volta, come un cigno azzurro a levante.
Non fu lunga la mia prima partenza, ne seguirono altre. Poco dopo.
Sistemazione temporanea, lo sapevi, gli dissi.
Non vi parlerò ora di tutti i miei viaggi ma lo farò più avanti.
Prendetelo per quello che è.
Capitolo primo.
Così iniziò tutto.
Molti si divertono ad inventare parole fantasiose.
Prendetelo per quello che è.
Un inizio.

Un giullare.
Cantastorie sull’abisso notturno.
Passi fragili come camelie.
La donna dal pallore lunare
E lo sguardo assorto nel sole.
Punti il sicuro, vince la sorte.
La ragazzina con un nuovo nome.
Battezzò se stessa in un caffè amaro.
Lo scrisse su un foglio che poi buttò via.
Un inizio.